giovedì, dicembre 22, 2016

Per la Notte di Natale




Gli auguri ai miei amici per le prossime feste natalizie vorrei accompagnarli (se fosse nelle mie disponibilità!) col dono di una coppia di gioielli confezionati in epoche diverse: il Concerto grosso op. VI n. 8 di Corelli e il Trittico botticelliano di Respighi. Sono doni che non dovrebbero riuscire sgraditi; perlomeno a quanti si ostinano a vedere, nelle prossime festività, qualcosa che va oltre l’esplosione consumistica e il trionfo del kitsch nelle sue varie forme.

ritratto di Arcangelo Corelli
Arcangelo Corelli (di Jan Frans van Douwen)
Arcangelo Corelli (Fusignano, 1653 – Roma, 1713) è un grande musicista attivo tra la seconda metà del XVII secolo e il primo decennio del XVIII. Romagnolo di nascita, si formò a Bologna e svolse la massima parte della sua attività a Roma, dove poté godere dell’amicizia e protezione di cardinali dotti e potenti quali Benedetto Pamphili e Pietro Ottoboni. Seppe coniugare l’eccezionale talento naturale con un lavoro attento e scrupoloso, con un perfezionismo evidente, tra l’altro, nella severità con cui selezionò, tra le sue molte composizioni, le poche giudicate degne di passare ai posteri attraverso la pagina stampata; e persino nell’ésprit de géometrie con cui distribuì le prescelte in 6 volumi di 12 composizioni ciascuno.
Il VI, pubblicato postumo ma nel rispetto della sua volontà, comprende esclusivamente Concerti grossi. Questo ‘genere’ (esclusivamente strumentale) prevedeva un organico nettamente distinto in due parti: il ‘concertino’ (o ‘soli’) – costituito da due violini e un violoncello – e il ‘concerto grosso’ (o ‘tutti’), costituito da un numero variabile di strumenti ad arco, sempre accompagnati da un ‘basso continuo’, realizzato dal clavicembalo nelle musiche ‘da camera’ e dall’organo nelle ‘musiche da chiesa’. Questa suddivisione consentiva di alternare il ‘concertino’ col ‘tutti’, secondo le esigenze del compositore, ottenendone varietà e dinamismo.
Quello qui proposto è appunto un Concerto grosso ‘da chiesa’, il n. 8 della raccolta, distinto dal sottotitolo “Fatto per la Notte di Natale”.
Il carattere natalizio del concerto è particolarmente evidente nell’ultimo movimento, “Pastorale”. E tuttavia, a modesto parere di chi scrive, sarebbe grave errore limitare il riferimento del sottotitolo al solo movimento conclusivo, trattando il resto come una delle suite di danze tanto care alla musica barocca. Tutto il Concerto, con la sua alternanza di momenti gioiosi ad altri più meditativi e inclini alla tenerezza, va inteso immerso nell’atmosfera natalizia.
Il primo movimento (Vivace) è brevissimo (solo otto battute) ed ha evidente carattere introduttivo. A mio giudizio, risente del coevo melodramma, un genere attentamente evitato dal compositore romagnolo ma a lui, certo, non ignoto. Gli accordi, decisi anche se intervallati da pause, presentano un personaggio autorevole che si avanza sul proscenio a imporre il silenzio e chiedere attenzione. Il breve periodo musicale, infatti, non conclude; si arresta sull’accordo di dominante generando sospensione, attesa, accresciuta dalla pausa: attenzione! un evento importante sta per svolgersi sotto i vostri occhi! Ed ecco, nel Grave, emergere, pianissimo, dalle profondità misteriose del basso la nota fondamentale, a cui si aggiungeranno via via le altre voci, snodandosi austere e solenni, in un preciso contrappunto che certo non sarebbe dispiaciuto a Palestrina. È così creata l’atmosfera appropriata al mistero della salvezza, che ha inizio appunto con la natività del Signore. Ma la nascita è comunque un evento lieto e, in tutta naturalezza, la severa armonia trapassa nella gioiosa danza dell’Allegro. A questo fa seguito un pezzo più meditativo, fatto di gioia contenuta (dal sol minore si passa al mi bemolle maggiore), che parte da un motivo semplicissimo (sostanzialmente si regge sulle note degli accordi di tonica e di dominante), con un movimento cullante che sembra anticipare quello della Pastorale. Il breve Adagio si lega a un passo più mosso (Allegro) per riapparire poco dopo identico e concludersi con una ‘coda’ che prepara l’accordo conclusivo. La gioia riesplode in una vivace danza di pastori (tonalità di partenza) a cui sembrano unirsi anche gli angeli. La melodia infatti è impreziosita da deliziosi trilli che sembrano evocare un aliare di angioletti intorno al Presepe, secondo l’ingenua fantasia popolare ripresa da non pochi pittori, quali, per esempio, Nicolas Poussin o Luca Giordano. Per poi rinnovarsi ancor più festosa in una nuova danza in tempo tagliato (una gavotta?), la cui foga si stempera bruscamente nel passaggio alla Pastorale finale, avviata senza pause ma con improvviso slittamento alla tonalità di sol maggiore. E’ questo il passo più noto, rimasto nella memoria di chiunque l’abbia ascoltata almeno una volta. Col suo caratteristico andamento cullante (dato dallo schema ritmico dei 12/8), la Pastorale scorre tranquilla e pacata fino alla conclusione: un sentimento di devota tenerezza la percorre da cima a fondo, mantenendo sempre una misura di classica sobrietà, senza mai scadere nel facile sentimentalismo (pericolo sempre in agguato in tale genere di composizioni).

L'Adorazione dei pastori
Nicolas Poussin (XVII sec.), L'Adorazione dei pastori
Non sta a me suggerirvi l’interpretazione in cui ascoltarlo. Non mancherò, però, di segnalare la mia preferita (anche perché ormai fuori commercio, credo, e quindi nessuno mi può accusare di indebita pubblicità). È quella diretta da Igor Oistrakh, con l’Ensemble di solisti dell’Orchestra sinfonica accademica della Filarmonica di Mosca, incisa da “Melodia” negli anni ’80 (c’era ancora l’Unione Sovietica!). Quanta gentile delicatezza, nella loro esecuzione, quanto rispetto per quell’indicazione nient’affatto superflua dell’autore: “fatto per la Notte di Natale”! Quanta delicatezza in quel timido poggiare e tenere con trepidazione la nota iniziale della battuta! Con quanta finezza sono risolti quei tenui ricami corelliani che all’ingenua fantasia evocano l’angelico aleggiare sul presepe! Insomma, una bella differenza rispetto a chi, probabilmente proprio per l’errore di restringere il carattere natalizio al movimento finale, ne fa una serie di vivaci danze rustiche (da festa della vendemmia!), adottando tempi sbrigativi, esasperazione dei tempi forti, rudezza selvaggia dell’arcata.

L'Adorazione dei pastorti (partic.)
Nicolas Poussin (XVII sec.), L'Adorazione dei pastori: particolare


Come secondo ‘dono’ avrei potuto proporvi un altro concerto natalizio barocco, quello di Torelli, per esempio, o di Manfredini, o di Locatelli… Preferisco suggerirvi qualcosa di meno consueto: l'“Adorazione dei Magi”, tratta dal Trittico botticelliano di Ottorino Respighi (Bologna, 1879 – Roma, 1936).
Respighi, con i cani, ospite di Ojetti al Salviatino
Respighi, con i cani, ospite di Ojetti al Salviatino
 Il secondo movimento del Trittico (Andante lento) si ispira all’omonimo dipinto botticelliano esposto agli Uffizi. Ma chi nell’ascolto ne ricercasse una descrizione accurata, sia pure con tutta l’indeterminatezza del linguaggio musicale, resterebbe fatalmente deluso. Il legame col quadro di Botticelli resta molto generico. L’ispirazione respighiana si limita all’atmosfera natalizia, integrata da quel tanto di esotico, di orientaleggiante, suggerito dall’arrivo dei Magi (“Vidimus stellam eius in Oriente, et venimus adorare eum”). Certo c’è, nel musicista bolognese, la ricerca coloristica che lo ha sempre affascinato. Il Trittico è un “lavoro per piccola orchestra” – disse l’autore alla moglie (febbraio 1927) annunciandole l’intenzione di comporlo. Ma è tale il suo amore per la raffinatezza pittorica che, accanto al quintetto d’archi, al pianoforte, all’arpa e a pochi fiati usuali (fagotto, flauto, oboe, clarinetto) non sa rinunciare a strumenti poco frequentati ma a lui cari proprio per il particolare colore timbrico, quali, oltre all’amata celesta, il triangolo e persino i campanelli. Eppure, anche la ricerca di analogie tra le tinte del dipinto ispiratore e i ‘colori’ orchestrali non credo darebbe risultati convincenti.
Io vorrei invece proporre (con tutta la modestia e la cautela del caso) una tripartizione di natura narrativa: l’adorazione dei pastori, il viaggio dei Magi, l’adorazione dei Magi propriamente detta.

Sandro Botticelli, L'Adorazione dei Magi
Sandro Botticelli, L'Adorazione dei Magi

Si entra in tema appunto con l’adorazione dei pastori, evocata dal fagotto cui presto si associa l’oboe, mentre il flauto (sono i tre strumenti tipici delle scene pastorali) si esibisce in gioiosi svolazzi; e infine gli archi. Ed ecco, su pochi accordi profondi degli archi, innestarsi, chiarissima, nettissima, una melodia d’organo dal sapore antico. Ma come l’organo? Non è una composizione per piccola orchestra? Sì, e infatti non c’è nessun organo. L’illusione acustica è prodotta mediante l’accoppiamento di flauto e fagotto a distanza di due ottave, ed ha la funzione di contribuire a creare l’atmosfera di religioso raccoglimento. La melodia dal sapore antico, infatti, altro non è che la rielaborazione di una cantilena di chiesa di ascendenza medioevale, Veni veni Emmanuel, a sua volta derivata da una più antica melopea che intona le antifone vespertine in preparazione del Natale, una delle quali comincia appunto con “O Emmanuel”. Il motivo viene variamente ripetuto, fiorito da gioiosi svolazzi e giravolte del flauto, e interpuntato da brevi ma profondi interventi degli archi. Che lo concludono, cedendo il passo a una marcia in tempo moderato, evocatrice del viaggio dei Magi, e, se la memoria non m’inganna, non immemore delle borodiniane steppe dell’Asia centrale (si ricordi che Respighi, agli inizi del Novecento, partecipò come viola a due lunghe stagioni concertistiche in Russia, dove seguì con particolare interesse – per non dire con devozione – gli insegnamenti di Rimski-Korsakov, che di Borodin era stato sodale nel Gruppo dei Cinque e non di rado coadiutore nella strumentazione). La marcia, ritmata dagli archi e da bruschi interventi di pianoforte, arpa, triangolo e celesta (spesso con accordi “acquosi” che sembrano ripresi dalle Fontane) presenta un carattere esotico, orientaleggiante: si noti in particolare il breve canto dell’oboe (da confrontare col canto da Borodin assegnato al corno inglese) e il dialogare della celesta con i fiati, in particolare col flauto. Poi la musica, come per stanchezza, si fa languida; e, dopo un vano tentativo di rianimarla da parte degli archi, d’un tratto precipita in un accordo tenebroso, e ristagna senza capacità di risollevarsi. Ma ecco, proprio dal fondo scuro di quelle note stagnanti, ecco levarsi un canto noto, tenero, familiare: sì, è la melodia di “Tu scendi dalle stelle”, la popolare melodia di Sant’Alfonso, che, come Respighi ai suoi tempi, ognuno di noi ha udito da bambino, e si mescola ai più cari ricordi dell’infanzia. La presenta, con voce timida, il solito fagotto, ma presto subentra l’oboe a chiarire e illuminare quella melodia fatta di nulla, mentre gli archi la fioriscono a modo loro, e la voce del fagotto si fa cullante… Un sentimento di tenerezza s’impone: Respighi dovette avvertire il rischio di lasciarsi prendere la mano da un sentimentalismo nostalgico ribelle al “fren dell’arte”. E infatti, da grande artista, si affretta a dissiparne il motivo: fagotto e oboe lo deformano con note che sembrano incongrue e che invece ci riportano all’iniziale, umile adorazione dei pastori. Il ciclo è compiuto, la voce dominante del fagotto si spegne e presto anche il pianissimo dei violini svanisce nel silenzio.

giovedì, novembre 03, 2016

Parini e i vegani

Parini e i vegani





Ritratto di Giuseppe Parini


Giuseppe Parini
Il testo che oggi vorrei proporre alla vostra cortese attenzione è uno splendido pezzo di poesia. E questo, per persone di gusto e amanti delle cose belle, è già un motivo più che sufficiente per leggerlo. O magari ri-leggerlo. Alcuni di voi – ne sono sicuro – lo avranno già letto a scuola e ne conserveranno un ricordo più o meno vago secondo le personali vicissitudini scolastiche, l’interesse  e, naturalmente, il numero di anni trascorsi. Spero, quindi, che la lettura, o rilettura, risulterà ugualmente gradita. Tanto più che il passo in questione, oltre all’indiscutibile valore estetico, presenta risvolti morali a mio avviso oggi ancora più interessanti che al suo tempo. Se invece riuscirò ad annoiarvi, mi scuserò col Manzoni, “credete che non s’è fatto apposta”.

L’autore, Giuseppe Parini, è poeta generalmente noto. Tuttavia forse non sarà superfluo richiamare qualche dato essenziale.
Nacque a Bosisio  (Lecco) nel 1729 e morì a Milano nel 1799. Tra le sue opere poetiche si ricordano soprattutto le Odi (19) e, più ancora, Il giorno. Quest’ultimo è un poema satirico, in apparente forma didascalica. Il poeta, infatti, si finge precettore di un “giovin signore” (e tale, fino a poco prima della composizione, era stata realmente la ‘professione’ del Parini in casa dei duchi Serbelloni!). In veste appunto di precettore, il poeta accompagna il suo ‘pupillo’ nelle varie ‘occupazioni’ giornaliere, suggerendogli i comportamenti più appropriati. Così, con grande naturalezza, finisce per mettere sotto i nostri occhi un quadro veritiero della vita effettivamente vissuta dalla maggior parte dei nobili nella seconda metà del Settecento. Un quadro impietoso, che mette in luce un modo di vivere corrotto, scioperato, inutile.


Il lago di Pusiano
Il lago di Pusiano - sulle cui rive sorge Bosisio - da Parini cantato col nome classico di Eupili (ringrazio, per la splendida foto, il sito lagodipusiano.com)


E i vegani? Che cosa c’entra questo movimento, o  piuttosto questa setta, sorta in pieno Novecento, e in espansione proprio in questi anni, con un poema vecchio di due secoli e mezzo? C’entra, c’entra. Ma… ogni cosa a suo tempo.
C’è però un problema. Vista con gli occhi di oggi – sentita con l’orecchio di oggi – la lingua del testo pariniano non può non apparirci desueta, antiquata, arcaica. E non solo per la veneranda età del poema da cui è tratto. La lingua del Giorno doveva apparire arcaica già ai suoi tempi. Perché si intona al registro stilisticamente più elevato, quello epico, che prevedeva lessico e sintassi solenni, arcaizzanti, lontani in ogni caso dalla lingua d’ogni giorno. S’intende che qui tale linguaggio ha funzione ironica. Usato propriamente per cantare gesta eroiche coinvolgenti il destino di interi popoli, è qui impiegato per descrivere la vita inconcludente di una massa di perdigiorno… Il contrasto tra la sublime levatura del linguaggio, da una lato, e la trivialità dei fatti e la volgarità e bassezza d’animo dei tronfi personaggi dall’altro, è stridente; l’effetto ironico immancabile.
Vale la pena, dunque, superare le innegabili difficoltà linguistiche, ampiamente compensate dall’efficacia poetica del testo. Nell’intento di agevolarne la lettura, segnalo e tento di spianare in anticipo almeno qualcuna delle difficoltà ricorrenti (e chiedo venia a chi non ne avrebbe bisogno, e a tutti per l’inevitabile ricorso a qualche termine tecnico). Le trasposizioni sintattiche, per esempio – tecnicamente dette ipèrbati – del tipo: “che tanta parte / colà ingombra di loco” (= che colà ingombra tanta parte di loco), o Sì superba di ventre agita mole (= agita sì superba mole di ventre); le inversioni (oggetto + verbo, invece di verbo + oggetto): e le narici / schifo raggrinza (= e, schifato, raggrinza le narici)); la posizione ‘enclitica’ del pronome personale àtono, spesso complicata dal cosiddetto raddoppiamento sintattico: lanciolla (= la lanciò); le forme abbreviate del passato remoto: precipitàro (= precipitarono); odiàr (= odiarono)… Avverto, poi, che la parola-chiave cuccia qui non ha nulla che vedere col giaciglio o la casetta del cane; è soltanto la forma abbreviata di cucciola
E dopo questa premessa, forse troppo lunga e sufficientemente noiosa, veniamo al dunque.

*****

Il brano è tratto dalla sezione dedicata al mezzogiorno. Il precettore accompagna il ‘giovin signore’ a pranzo, in casa della dama alla quale offre i suoi servigi galanti in veste di cicisbeo, di cavalier servente ‘ufficiale’, con l’implicita approvazione del marito, non sai se compiacente o rassegnato.
Il precettore – il poeta – ha così occasione di fissare l’obiettivo su alcuni commensali particolarmente interessanti.

Un buzzo monumentale, per cominciare:

“Or chi è quell’eroe che tanta parte
Colà ingombra di loco, e mangia e fiuta
E guata e de le altrui cure ridendo
Sì superba di ventre agita mole?

È un inesorabile divoratore di sostanze. In ogni senso. Mangia con un’ingordigia spettacolare. Specialmente quando è invitato in casa altrui. Suscitando crampi allo stomaco e mal di pancia lancinanti nelle “smilze ombre” degli antenati del malcapitato ospite. Quelle povere anime ripensano costernate alla fame patita, ai mille e mille sacrifici sopportati, alle innumerevoli furberie e angherie, ai mille soprusi, ai delitti anche, grazie ai quali avevano accumulato quel patrimonio che ora svanisce nelle fauci insaziabili dell’eroico pappone.
Ma il caso a volte si diverte. E così ha disposto che proprio accanto alla superba mole dell’onnivoro sedesse la deperita figurina di un estremo seguace del vegetariano filosofo e matematico di Samo:

…. egli ozïoso siede
Dispregiando le carni; e le narici
Schifo raggrinza, in nauseanti rughe
Ripiega i labbri, e poco pane intanto
Rumina lentamente.

Eroe incomparabile: mai nessuno ha come lui saputo sopportare i morsi atroci della fame. E ben a ragione, ché

Tanto importa lo aver scarze [= snelle]  le membra,
Singolare il costume, e nel bel mondo
Onor di filosofico talento.

Solo gli animi volgari si mostrano pietosi nei confronti delle sofferenze dei propri simili. Lui, “filosofico talento”, la propria squisita sensibilità serba alle bestie. E infatti, nel momento più lieto e chiassoso del convito, si produce in una sdegnata invettiva contro chi per primo osò levar la mano su l’innocente agnella, / e sul placido bue.

È un disastro. La breve ma ardente concione richiama alla mente commossa della gentile ospite un ben triste ricordo, ed ella prorompe in un pianto dirotto, interrompendo bruscamente, seppure solo per qualche istante, il pacifico godimento delle innocenti gioie conviviali da parte di quell’accolta di nobili, spensierati mangiatori. 

… Or le sovviene il giorno,
Ahi fero giorno! allor che la sua bella
Vergine cuccia de le Grazie alunna [= allevata dalle Grazie, dunque graziosissima]
Giovenilmente vezzeggiando, il piede
Villan del servo con l’eburneo dente
Segnò di lieve nota [lieve, grazioso segno del suo dentino… eburneo!]: ed egli audace
Con sacrilego piè lanciolla: e quella
Tre volte rotolò; tre volte scosse
Gli scompigliati peli, e da le molli
Nari soffiò la polvere rodente.
Indi i gemiti alzando: aìta aìta [= aiuto! aiuto!]
Parea dicesse; e da le aurate volte
A lei l’impietosita Eco rispose:
E dagl’infimi chiostri [cortili porticati] i mesti servi
Asceser tutti; e da le somme stanze
Le damigelle pallide tremanti
Precipitáro. Accorse ognuno; il volto
Fu spruzzato d’essenze a la tua dama;
Ella rinvenne alfin: l’ira, il dolore
L’agitavano ancor; fulminei sguardi
Gettò sul servo, e con languida voce
Chiamò tre volte la sua cuccia: e questa
Al sen le corse; in suo tenor [= a modo suo] vendetta
Chieder sembrolle: e tu vendetta avesti,
Vergine cuccia de le Grazie alunna.
L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo
Udí la sua condanna. A lui non valse
Merito quadrilustre; a lui non valse
Zelo d’arcani ufficj: in van per lui
Fu pregato e promesso; ei nudo andonne [= ne andò, andò via da lì]
Dell’assisa [livrea] spogliato  ond’era un giorno
Venerabile al vulgo. In van novello
Signor sperò; ché le pietose dame
Inorridíro, e del misfatto atroce
Odiàr l’autore. Il misero si giacque
Con la squallida prole, e con la nuda
Consorte a lato su la via spargendo
Al passeggiere inutile lamento:
E tu, vergine cuccia, idol placato
Da le vittime umane, isti [andasti] superba.

Uno splendido pezzo di poesia, si diceva. Non è qui il luogo per una analisi dettagliata, ma mi si consentirà qualche osservazione essenziale.
Il narratore si identifica con la figura del precettore, ligio alla sua funzione, consapevole del suo ruolo subordinato, integrato nella mentalità della classe sociale che serve e di cui sembra condividere i valori. Ma di tanto in tanto, l’urgenza del sentimento squarcia il velo della finzione e in primo piano balza la persona del Parini, scosso da umana pietà e incontenibile sdegno. Non tanto forse nei versi da “l’empio servo tremò” a “odiàr l’autore”: la visione dello squallore in cui è precipitato “l’empio servo” potrebbe essere condivisa dal ‘precettore’ integrato, e dalla classe d’appartenenza del suo nobile pupillo, come compiaciuta contemplazione del ‘meritato’ castigo (notare gli aggettivi “empio”, “pietose”, e l’espressione “misfatto atroce”; notare anche l’ironica antitesi tra il il piede villan del servo e  l’eburneo [= d’avorio, dunque prezioso!] dentino della cagnetta, tra l’inezia del danno (un lieve, quasi grazioso segno del dentino) e la ‘brutalità’ della reazione del villano, col suo piede sacrilego!). Ma certo parla in persona propria il buon prete Parini quando, con profonda pietà, ci addita quell’onesto padre di famiglia ridotto sul lastrico, “con la squallida prole, e con la nuda / consorte a lato”, intento a mendicare – vanamente! – per sé e per i suoi cari un tozzo di pane. E, certo, sdegno atroce, e pietà insieme, risuona nel sarcasmo amaro dell’allocuzione alla graziosa cucciolina: “e tu vendetta avesti, / vergine cuccia de le Grazie alunna”, ripreso e rinforzato dal distico finale, che pare scolpito sull’altare sacrificale eretto a una cagnetta elevata al rango sublime di Moloch esigente tributo di vittime umane!
Sul piano propriamente stilistico, si osservi la grottesca concitazione da tragedia creata da voci e movimenti incrociati: guaìti della cuccioletta riecheggiati dalle volte (e si noti la preziosa ‘rimalmezzo’ impietosìta che riecheggia aìta!); accorrere di servi  (dal basso) e di serve (dall’alto)… Insomma, tutto un esagitato trambusto convergente sul luogo del “misfatto”, dove troviamo l’effetto della catastrofe: la dama già svenuta, attorno a cui è tutto un affaccendarsi di servi e serve intenti a farla rinvenire.
E rinviene, infine. E balza in primo piano, al centro della scena. Il verso procede rotto da pause: in preda al dolore e all’ira, la sventurata non riesce ad articolare una parola. Per il servo “villano” non ha che qualche sguardo di fuoco. Ma verso l’oltraggiata cucciola… voce languida, tenerezza, perfetta intesa (sì, vendetta, vendetta!). Pausa. L’amara considerazione del poeta anticipa il dramma (vero, questo!) che sta per travolgere l’empio autore del misfatto. In primo piano è ora il servo, umiliato, dannato. Meriti di lungo, fedele, irreprensibile, talvolta complice servizio… preghiere… tutto inutile. La condanna è spietata e inesorabile. Spogliato della livrea che aveva costituito il segno del suo ruolo subordinato ma anche un titolo d’onore; scacciato dal Palazzo dove aveva servito vent’anni con scrupolo ed encomiabile zelo; detestato, aborrito dall’intera classe sociale che sola avrebbe potuto dargli un’altra possibilità di lavoro; non gli resta che trascinare moglie e figli sulla pubblica via e affidarsi alla non sempre certa solidarietà umana.
 
Ritratto di Madame Pompadour
In questo celebre quadro di Boucher, Mme Pompadour è assorta 
nei pensieri suscitati dalla lettura, vigilata dal fedele cucciolotto.
Chiunque sia riuscito a superare gli ostacoli di natura linguistica, e abbia sensibilità per la poesia, converrà con me sull’innegabile qualità estetica del brano. Eppure – lo confesso – non è stata questa la ragione principale che mi ha convinto a presentarvelo, superando la ritrosia ad abusare del vostro tempo. La ragione determinante è stata la costatazione del progressivo diffondersi di gravi atti di intolleranza nei confronti di esseri umani, giustificati col nobile sentimento dell’amore per gli animali.
A settembre dello scorso anno, nello Stato indiano dell’Uttar Pradesh, una spedizione punitiva di un centinaio di estremisti indù armati di bastoni ha ucciso un anziano, ridotto in fin di vita il figlio ventiduenne, bastonato senza pietà la madre settantenne e tentato di violentare la figlia diciottenne. La colpa? Oltraggio alla vacca. L’uomo, infatti, era stato accusato di aver mangiato carne bovina. E, a quanto sembra, non si tratta affatto di un episodio isolato. Pare, anzi, che in tutta l’India gli estremisti abbiano scatenato il terrore, minacciando di morte chiunque si attenti ad arrecare offesa alla sacra vacca.
Il fatto mi sembra particolarmente inquietante anche perché si verifica all’interno di quella caleidoscopica costellazione religiosa nota col nome di induismo, che da sempre ci viene presentata – anche per influsso della personalità certamente carismatica del mahatma Gandhi – come aperta, pacifica e singolarmente mite…
Sì, direte, ma… i vegani, che c’entrano i vegani? È vero: per quel poco che ne so, i vegani non si sono macchiati di delitti comparabili a quelli ricordati. E tuttavia girano su internet filmati con esibizioni di un’intolleranza degna della più eccellente tradizione talebana, di un’arroganza e prepotenza che credevamo estranee ai nostri lidi. Personalmente non ho nulla contro la dieta vegetariana, e nemmeno contro quella rigorosamente vegana. Ma volerla imporre con la violenza morale e, in certi casi, addirittura fisica, mi sembra davvero fuori dal mondo. Più precisamente mi sembra indice di uno stravolgimento, se non proprio di un capovolgimento, della scala dei valori.
Ed eccoci a Parini e all’episodio della “vergine cuccia”. Non se ne abbiano a male vegetariani e vegani. Parini lascia impregiudicata la fede vegetariana, già nota a suoi giorni; e a maggior ragione la a lui sconosciuta fede vegana, venuta di moda recentemente, a più di due secoli dalla composizione del Giorno. Anche se trova ridicoli coloro che le seguono non per convinzione profonda, ma per sciocca vanagloria, per il capriccio snobistico di ostentare a tutti il proprio più o meno presunto “filosofico talento”. O, più banalmente, per accodarsi all’ultima moda Né, peraltro, Parini è propriamente un fautore della pedata facile al ‘più fedele amico dell’uomo’. Quello che il poeta lombardo intende ricordare è che esiste una scala di valori, che alcuni di essi sono più importanti ed altri meno. E a nessuno dovrebbe essere permesso di stravolgere quella gerarchia. E non occorre essere cristiani credenti e praticanti per mettere l’uomo in cima alla scala dei valori. Kant, il grande contemporaneo del nostro poeta, nella Critica della Ragion pratica, separa l’uomo da tutto il resto del creato (o del cosmo, se preferite) sulla base di argomenti rigorosamente laici. Gli appartenenti alla specie umana sono per lui gli unici esseri a noi noti a costituire il “mondo dei fini”, gli unici ad avere dignità di “persona”, cioè di creature libere e moralmente responsabili, e perciò gli unici a dovere essere visti sempre come fini e mai esclusivamente come mezzi.

vacche riposano tranquille sulle rive del Lago Sirino
Altri tempi: vacche riposano tranquille dopo il pasto (ma qualcuna non è ancora sazia!) sulle rive del Lago Sirino, tanti e tanti anni fa.

Questo, evidentemente, non significa che non sia giusto amare gli animali ed esigerne il rispetto. Anche, eventualmente, con mezzi coercitivi verso coloro che infliggono a queste creature sofferenze ingiustificate, rappresentate, per esempio, da allevamenti condotti  con modalità disumane; per non parlare di menti malate che amano farli soffrire per il gusto perverso di vederli soffrire. Significa, come dicevo, ristabilire un ordine gerarchico razionale all’interno dei molteplici valori che si raccomandano al nostro senso morale (che – si ricordi – è, appunto, esclusivo dell’uomo, che proprio per questo assurge alla dignità di “persona”; il leone che fa strazio crudele dell’infelice gazzella, non si pone – non può porsi – alcun problema di ordine morale!). E significa, anche, il rispetto delle proporzioni.
Mi si lasci concludere, a questo proposito, con un aneddoto del Novellino, silloge narrativa fiorentina della fine del XIII secolo.
L’imperatore Federico II di Svevia era, non senza fondamento, ritenuto un sovrano di straordinaria cultura e saggezza. La sua fama – si racconta – era giunta addirittura all’orecchio del Presto Giovanni, un favoloso signore cristiano (ma poco o nulla ossequiente alla Chiesa di Roma), della cui immensa ricchezza e saggezza tutti parlavano, senza peraltro accordarsi sul sito della sua signoria. Il “Presto” (volgarizzazione del francese Prestre, cioè Prete) volle dunque mettere alla prova quella tanto decantata saggezza. Mandò all’imperatore ambasciatori con l’incarico di donargli “tre pietre nobilissime” e di porgli la seguente domanda: “Qual è la migliore cosa del mondo?”. Federico ringraziò delle pietre, molto apprezzate per il loro valore estetico, peraltro disinteressandosi completamente – con grave disappunto del mittente! – delle loro presunte proprietà magiche. E quanto alla domanda, questa fu la sua risposta: “Ditemi al signore vostro che la migliore cosa di questo mondo si è MISURA”.
Misura, equilibrio, senso delle proporzioni, corretta gerarchia di valori… Una virtù rara – a giudizio del buon Federico – nella società aristocratica del XIII secolo. E ancor più rara – pare – nelle ‘democraticissime’ società di oggi!


giovedì, agosto 11, 2016

Giovanni Luca Conforti: gorge, passaggi e altri abbellimenti




Citarista, partic. di incisione di Dall'Acqua
citarista (partic. da incis. di Dall'Acqua)

In un articolo precedente, dedicato a Monteverdi e Tasso (v. Combattimento), si è fatto cenno alle ‘gorghe’ (o ‘gorge’), esemplificando con un esercizio di Giovanni Luca Conforti. È ora il momento di riprendere il discorso. Non è – come potrebbe sembrare a prima vista – un argomento di esclusiva pertinenza di eruditi. Già il fatto che le ‘gorghe’ rientrassero nella pratica esecutiva generalizzata dei cantanti del XVI e XVII sec., e oltre, dovrebbe bastare – io credo – a richiamare l’attenzione di chiunque abbia interesse al belcanto e al suo svolgimento. Ma c’è  di più: esse erano pratica corrente anche nella musica strumentale, sebbene in questi casi si preferisse parlare di ‘passaggi’ o ‘diminuzioni’. Uno dei trattati teorici più antichi sull’argomento, la Fontegara di Silvestro Ganassi del Fontego (1535), è dedicato al flauto (diritto), ma con la precisazione che esso può risultare utile “ad ogni histrumento di fiato  et chorde, et ancora a chi si diletta di canto”. In realtà, trilli, gorge, diminuzioni e passaggi rientrano nel grande tema delle tecniche di ornamentazione e d'improvvisazione sia vocale che strumentale, e sono tra le premesse essenziali alla meravigliosa fioritura della musica barocca.


Giovanni Luca Conforti

Consentitemi, dunque, di riprendere l’argomento  e di svilupparlo in concomitanza con un cenno a un paio di episodi interessanti della vita dell’autore che ci ha fornito l’esempio precedente e altri ce ne fornirà in questo articolo. Non solo per un banale motivo di gratitudine postuma, ma anche perché questo ci offrirà l’occasione per una fuggevole sbirciatina nella vita musicale delle corti post-rinascimentali, in particolare quella papale, con la sua prestigiosa Cappella Sistina, e quella del duca di Mantova.
Giovanni Luca Conforti, dunque. Chi era costui?
Il richiamo al celebre incipit manzoniano appare più che giustificato. Da molto tempo, ormai, quello del Conforti è un nome noto solo agli specialisti. Ma ai suoi tempi Giovanni Luca – cantante, compositore, teorico musicale – fu artista noto e ricercato. Basterebbe, a provarlo, la testimonianza del protonotario Capilupi, emissario del duca di Mantova Guglielmo Gonzaga (1538-1587). Scrivendo da Roma al suo signore – mecenate ed egli stesso musicista dilettante, all’affannosa ricerca di musici di valore per la sua corte – Capilupi suggerisce appunto il nome del Conforti, esaltandone le straordinarie doti di ‘falsetto’ (“il meglio che sia in Roma”!) e l’eccellenza nella musica profana[1]. Valutazione confermata, molti anni dopo (1640), da Pietro Della Valle, un musicista molto critico con i musici della generazione del Conforti. Eppure, riandando agli anni della sua fanciullezza, non può fare a meno di ricordare con ammirazione il ‘falsetto’ Giovanni Luca, “gran cantore di gorge e di passaggi, che andava alto alle stelle”.
Chi era, dunque, questa celebrità canora della fastosa Roma del tardo Cinquecento; questo ‘falsetto’ che, per riprendere le parole di Capilupi, "canta di testa e fa contrappunti e, come si dice, di gorga che pare un rosignuolo”?
La prima notizia certa la troviamo nel registro dei cantori della Cappella Sistina, all'anno 1580: Ego Joannes Luca Conforti clericus militensis. La formula, di mano dell'interessato, ce ne attesta l’appartenenza al clero di Mileto (militensis è un evidente lapsus calabrese – da Militu – per il corretto miletensis), e l'avvenuta affiliazione al coro della Sistina. Nulla ci dice, invece, della data del suo arrivo a Roma; né degli appoggi che consentirono al giovane provinciale di farsi conoscere e apprezzare nel selettivo circolo della Cappella pontificia tanto da esserne cooptato ventenne o poco più.


Mileto



Mileto in una stampa del ‘600

Mileto in una stampa del ‘600:
in alto a sinistra (L), il Seminario dove C. ricevette la sua formazione
 Distrutta dal disastroso terremoto del 1783, e ricostruita un paio di km più a ovest, Mileto è oggi una cittadina di circa 7000 abitanti, in provincia di Vibo Valentia; e condivide la sorte non particolarmente felice di tanti altri paesi dell’interno della Calabria. Ebbe il suo momento di fortuna e di grandezza nella seconda metà dell’XI sec., quando il normanno Ruggero I d’Altavilla, Conte di Calabria, poi anche di Sicilia, ne fece la propria capitale e vi promosse l’istituzione di una sede vescovile conservatasi fino ai giorni nostri.
Poco sappiamo delle condizioni dell’arte musicale a Mileto nel XVI sec. (i documenti, evidentemente, andarono distrutti nel terremoto dell'83). Ma sembra che presso la cattedrale fosse attiva una Schola cantorum di qualità non spregevole. Del resto, da Mileto proveniva anche Giandomenico Martoretta (o La Martoretta, come, con malcelata civetteria, preferisce firmarsi), un madrigalista dalla  vita errabonda, nato verso il 1515, ricercato e conteso per la sua bravura da diverse corti. In questo ambiente, dunque, nacque Giovanni Luca Conforti verso il 1560[2], e qui certamente ebbe la sua prima formazione musicale. 
 

L’affaire Palestrina

Sisto V (partic.) - Loreto
Sisto V (partic.) - Loreto
A Roma dovette arrivarci lo stesso anno della sua affiliazione alla Sistina, e la scoperta del raffinato ambiente musicale romano non mancò di affascinarlo. Ne troviamo un’eco in poche righe della sua Breve et facile maniera d'essercitarsi – di cui parleremo più avanti – volte a spiegare le ragioni della sua iniziativa editoriale. L'autore vi dichiara il proposito di alleviare la fatica di quanti intendono perfezionarsi nell’arte del canto ‘ornato’ e nella tecnica dell’improvvisazione; proposito suggerito  dalla constatazione che “solo nelle Città grandi, et nelle Corti de’ Prencipi, si usa il modo di cantar con vaghezza et dispositione, et che quelli che in ciò hanno riportato lode sono stati, per lo più, virtuosi non in esse nati, ma forastieri ivi trasportati”, costretti ad acquistarne la tecnica con un apprendistato lungo e faticoso, non sostenuto da appropriate regole teoriche. Parole nelle quali sembra di poter leggere, in filigrana, da un lato l’entusiasmo destato in lui dalla rivelazione di una raffinatezza finallora insospettata (come doveva apparirgli rozzo, ora, il canto della cattedrale della sua piccola Mileto!), dall’ altro l'orgoglio del provinciale che, grazie alle doti naturali e alla severità dell'impegno, è riuscito a imporsi, a preferenza dei ‘cittadini’, nelle “Città grandi et nelle Corti de' Prencipi”.
Ma la sua felice condizione non doveva durare a lun­go. Il 31 ottobre 1585 il buon Conforti veniva messo bru­talmente alla porta dal Papa in persona. Le circostanze di tale evento non sono ben chiare nei particolari. Nell’Ottocento ne ha tentato una ricostruzione Giuseppe Baini, in un ampio studio dedicato alla vita e alle opere di Pierluigi da Palestrina, basandosi essenzialmente sul dia­rio manoscritto dell’allora segretario del Collegio dei can­tori della Sistina Paolo da Magistris, ma qua e là aiutan­dosi con la fantasia[3]. Da tale resoconto sembra di capire che in definitiva l’ingenuo Giovanni Luca si sia lasciato coinvolgere e travolgere da un intrigo ordito dallo stesso Sisto V. La foga riformatrice del grande Papa, da poco asceso al trono, investì anche il Collegio dei canto­ri della Cappella Sistina, sconvolgendone il tradizionale assetto di potere. Deciso a sottrarlo al controllo d’un ecclesiastico d’alto rango (di solito un “vescovo assisten­te”, quasi sempre ignaro di musica), progettò di affidarne la direzione a Pierluigi da Palestrina, che della Cappella era, in quegli anni, il compositore uffi­ciale. Per qualche sua ragione, però, papa Sisto non volle agire direttamente. Convocò dunque l’allora “Maestro” della Cappella Mons. Boccapadule, e gli ordinò di adoperarsi affinché i cantori ‘richiedessero’ come loro Maestro appunto il Palestrina (che, in ogni caso, sembrerebbe estraneo all’intrigo). Il Boccapadule, ovviamente, si dichiarò pronto all’obbedienza, ma, consapevole del vespaio di proteste che l’innovazione avrebbe suscitato soprattutto tra i cantori “anziani”, cerca di agire con diplomazia. Le cose vanno per le lunghe, e il cardinale Michele Bonelli (detto l’Alessandrino), vicario generale e scrupoloso esecutore della volontà del focoso Pontefice, ordina l’immediata consegna delle “Costituzioni” della Cappella. A re­cargliele è una delegazione di cui fa parte il Conforti. Evidentemente i delegati non seppero tenere la bocca chiusa. Sta di fatto che, poco tempo dopo, quattro cantori si ritrovano, d’ordine del Pontefice, espulsi dal Collegio. E mentre due di loro una quindicina di giorni dopo saranno perdonati e riammessi, per Giovanni Luca e per Gian Bat­tista Giacomelli (i due che si erano espressi con più franchezza?) non valgono né preghiere né promesse.


Compositore e curatore editoriale

Seguire le tracce del miletese nei sei anni successivi è piuttosto complicato. Il già citato Baini scrive che il Conforti, pur corteggiato per la sua bravura da Cappelle e da Principi, non volle “mescolare alla rinfusa nella sua fama disonoranze ed onori” e preferì “nascondersi in Mileto e tollerare pazientemente la sua umiliazione”. A Mileto, dunque! A smaltire, tra cose e persone familiari, la sua “umiliazione”. Una sorta di ‘regresso all'infanzia’, in fuga dai problemi della vita reale. Sennonché, questo ritorno ai luoghi d’origine sembra, più che altro, un par­to della fantasia del Baini. Già nel gennaio del 1586, infatti - a circa due mesi dal “licenziamento” - troviamo il Conforti ancora a Roma, contattato da agenti del duca di Mantova Guglielmo Gonzaga che lo vorrebbe al suo servizio. Il duca, visti fallire i numerosi tentativi di avere al­la sua corte cantori eunuchi - ricercati inutilmente non solo in Italia, dove allora (sia detto con onore!) erano rari, ma anche in Fran­cia, e persino in Spagna, che ne abbondava - si era rassegnato ad accontentarsi di “falsettisti”, uomini che, cantando di falsetto, erano in grado di sostenere digni­tosamente, se non con l'eccellenza dei castrati, parti di contralto o di soprano. Ma li voleva con la testa a posto, con “buona voce”, “sicuri nel cantare”; meglio ancora se esperti nel contrappunto e valenti suonatori di liuto. E, soprattutto, non troppo cari! Gli emissari del duca, tra cui il cantante basso Paolo Facone, il “patriarca di Geru­salemme” Scipione Gonzaga e il protonotario Capilupi, as­sunte informazioni e constatato di persona, suggeriscono il nome del “falsetto” Giovanni Luca, cioè appunto del Conforti. Ed è proprio dalla fitta corrispondenza relativa a queste trattative che abbiamo tratto le citazioni del Capilupi sopra riportate. Le trattative comunque non ap­prodarono a nulla, perché il Conforti, consapevole del proprio valore “di mercato”, dovette avanzare pretese giudicate troppo onerose.
Tra le attività di questo sessennio, che il Baini incautamente definisce di “umiliante riposo”, c’è anche quella di curatore di edizioni musicali. È lui che “firma” la pubblicazione del I volume delle Canzonette di Paolo Quagliati, in data 15 giugno 1588. Iniziativa premiata da immediato successo, se a soli quindici giorni di di­stanza, avute “nelle mani altre canzonette del signor Pa­olo Quagliati, ch’egli ha composte a richiesta di varie gentildonne romane”, si affretta a pubblicarne un secondo volume nel quale inserisce, al N° 15, una propria “canzonetta” intitolata Amara vita è quella degli amanti. Sempre – a quanto pare – senza autorizzazione del Quagliati.
La sua aspirazione più profonda rimase comunque sempre quella di poter tornare, un giorno, a far parte della prestigiosa Cappella pontifi­cia. La morte dell'implacabile Sisto (1590) riaccese le sue speranze; e queste infine trovarono coronamento sotto Innocenzo IX, il 4 novembre 1591.
Per gli anni successivi non abbiamo notizie partico­lari. La sua vita dovette scorrere tranquilla e operosa, tra l’esercizio della professione e connesse iniziative editoriali, come, nel 1592, la pubblicazione di un’antologia di composizioni sacre a otto voci tratte da diversi autori.
  
 
esempi di gorghe e ribattute di gola da Confort
fig 1: 
 (da Conforti, Breve et…): si osservi l’andamento sinuoso e gli svolazzi della voce; e, alla terza battuta del terzo rigo, un bell’esempio di ‘ribattuta di gola’; la prima nota del terzo rigo, subito dopo la chiave di soprano, è la oggi disusata ‘breve’, del valore di 4/2; (le noticine sovrapposte sono alternative)

Gorge, passaggi e altro

La pubblicazione della sua opera per noi più interessante cade, molto probabilmente, nell’anno successivo. (La data purtroppo non è sicura: nell'unico - a mia conoscenza - esemplare superstite (Bologna, Museo internazionale e biblioteca della musica) le cifre intermedie del millesimo sono illeggibili; dunque 1593 o 1603?). Si tratta della già ricordata Breve et facile maniera d'essercitarsi ad ogni scolaro, non solamente a far passaggi, ecc. ecc. (il titolo occupa l'intera prima pagina, esponendo analiticamen­te il contenuto e indicandone i destinatari). Il libretto consta di una quarantina di paginette, trenta di scrittu­ra musicale (gli “esercizi”) e otto di “dichiaratione” che, oltre ad offrire la chiave di lettura degli esercizi, espone la posizione teorica dell'autore.
L'intento - lo si è già capito - è eminentemente didattico. A noi, però, inte­ressa di più per le non poche informazioni utili alla ri­costruzione della storia del canto e delle tecniche dell'ornamentazione e dell'improvvisazione sia vocale che strumentale.
Il Conforti vi illustra l’arte di ornare, cioè di abbellire una melodia mediante le gorge (o gorghe) o – come lui preferisce dire – i passaggi. Termine, questo, molto comune, tanto che se ne era derivato un verbo transitivo: passaggiare, cioè sottoporre una melodia a tale trattamento esornativo. Indica, appunto, il ‘passaggio’, diciamo così indiretto, da una nota all’altra di una data melodia, ottenuto con la frammentazione di una nota lunga in ‘noticine’ di durata minore ma complessivamente equivalente a quella di partenza. Ne risulta un’esecuzione fiorita e sinuosa (andamento reso materialmente visibile nella scrittura confortiana, dove i tagli delle serie di crome e semicrome sono tracciati non nel consueto modo rettilineo ma seguendo, approssimativamente, il profilo melodico delle note; v. fig. 1 e 2). Un’esecuzione che, per il lussureg­giante moltiplicarsi di note e noticine accessorie, assu­me tratti decisamente barocchi e spesso, per la rapidità e difficoltà dei passaggi, carattere virtuosistico. Il Conforti si colloca così, grazie a quest’opera, nella serie di quei trattatisti (Ganassi del Fontego, Diego Ortiz ecc.) che con il trattamento virtuosistico di una delle linee melodiche della polifonia favoriscono l'evoluzione verso l'esecuzione solistica non solo vocale, ma anche strumen­tale, per questa parte preparando, con largo anticipo, gli sviluppi della musica barocca.

 
esempi di trillo e groppo, da Conforti

fig. 2 
(da Conforti, Breve et ): È facile constatare che all’epoca si chiamava trillo quello che per noi è un tremolo, mentre il nostro trillo era detto groppo ( o gruppo).


 Una voce critica: Caccini


Usato con gusto e senso della misura, questo procedimento poteva aggiungere al pezzo grazia e leggerezza. Il guaio era che i cantanti più dozzinali tendevano ad abusarne, suscitando la riprovazione dei musici più sensibili e di palato più fine. Si è vista, nell’articolo precedente, la posizione di Monteverdi. Qui voglio concludere con un ammonimento di Giulio Caccini, il cantante e compositore che, nella ricostruzione degli studiosi, contende a Conforti l’invenzione del trillo (v. fig. 3). Ammonimento tuttora non privo d'interesse, anche se il carattere ‘partigiano’ della posizione del Caccini è certamente innegabile. Di un decennio più vecchio del Conforti, legato alla Camerata fiorentina e tra i creatori del melodramma, Caccini combatte una sua battaglia in difesa del valore prioritario della parola poetica, a suo giudizio irrimediabilmente compromessa dalla polifonia, che utilmente si rimpiazzerebbe col canto monodico. Per la stessa ragione si batte contro l’abuso dei ‘passaggi’, nati nell’ambito di quel contrappunto che per lui non è che “laceramento della Poesia”. Gli “intendentissimi gentilhuomini” della Camerata fiorentina – scrive nell’introduzione alle Nuove musiche (1601) – lo hanno sempre incoraggiato “a non pregiare quella sorte di musica, che, non lasciando bene intendersi le parole, guasta il concetto et il verso”, come avveniva a quegli interpreti che infarcivano di ‘passaggi’ “ogni qualità di musiche pur che per mezzo di essi fussero dalla plebe esaltati, e gridati per solenni cantori”. “I passaggi – ammonisce Caccini – non sono stati ritrovati perché siano necessarii alla buona maniera di cantare, ma credo io più tosto per una certa titillatione a gli orecchi di quelli che meno intendono che cosa sia cantare con affetto [cioè con espressione, secondo il senso del testo poetico]; che, se ciò sapessero, indubitatamente i passaggi sarebbono abborriti”.
esempio di trillo e gruppo, da Caccini

fig. 3
 (da G. Caccini, Le nuove musiche): conferma quanto già osservato a proposito di trillo e gruppo.
 


[1] Falsetto, o falsettista, era il cantante maschio capace di cantare nei registri tipicamente femminili di contralto e di soprano. Era chiamato così perché emetteva una voce ‘falsa’, di testa.
[2] La data di nascita – 1560 – è congetturale e approssimativa. Più sicura, da qualche decennio, quella di morte, che Giuseppe Ferraro, sulla base di una segnalazione di Rostirolla, assegna all’11 maggio 1608.

[3] La ricostruzione del Baini è stata messa in dubbio e corretta su parecchi punti da diversi studiosi. Per esempio, Giuseppe Ferraro, nel 1981, riprendendo e sviluppando un suggerimento di R. Casimiri, attribuisce l’espulsione  a una presunta adesione di Conforti a un’altra associazione, e precisamente alla Soliditas musicorum de Urbe, intitolata a S. Cecilia. Ma, sulla base di considerazioni che qui sarebbe fuor di luogo riportare, ritengo che, almeno nella sostanza, l’ipotesi del Baini sia ancora la meno lontana dalla verità.