mercoledì, giugno 15, 2016

Montale e Leoncavallo, III : Un giudizio equilibrato






Vorrei concludere questa breve silloge, dedicata al rapporto di Montale con Leoncavallo, con una valutazione complessiva del compositore napoletano, che il poeta presenta e sottoscrive a nome proprio.
A quarant’anni di distanza dall’intervento a nome altrui (vedi post 24 aprile e 19 maggio), sul Corriere d’Informazione del 25/26 aprile 1956 Montale recensisce uno spettacolo ibrido: per riempire la serata (o, più probabilmente, per esorcizzare lo spettro della sala deserta), l’accorto programmatore aveva prudentemente affiancato, ai Sette peccati del dodecafonico Veretti, i Pagliacci del ‘retrivo’ Leoncavallo; un’operina che, a dispetto dei dileggi di ‘rivoluzionari’ e ‘innovatori’, esercitava un sicuro effetto calamita, potendo esibire più di sessant’anni di trionfi nei teatri di almeno mezzo mondo. 
Sul lavoro “seriale” di Veretti il critico fila via con qualche apprezzamento di circostanza, e con  bonaria ironia sulle virtù … visuali e democratiche della tecnica dodecafonica.
Ben diversamente articolato il discorso su Leoncavallo. Registrati i trionfi planetari di Pagliacci, Montale ricorda ai suoi lettori come l’opera fosse stata in seguito giudicata “uno dei peggiori obbrobri che la scuola verista abbia dato all’Italia”. Ma ora il vento sembra spirare in direzione opposta. “ Alcuni mesi fa – rivela il critico – un grande musicista, Victor de Sabata, ce ne parlava con un non dissimulato entusiasmo”. E allora? “A chi dobbiamo credere? Certamente ai nostri orecchi; e poi alla nostra esperienza personale”. Ed ecco quanto orecchio ed esperienza suggeriscono:

Ruggero Leoncavallo fu, intanto, un uomo tutt’altro che incolto. Non solo aveva una buona educazione musicale, ma la sua cultura letteraria era insolita in un operista. Aveva seguito a Bologna le lezioni del Carducci e si era laureato in lettere. Scriveva da sé i propri libretti, e non è detto che fossero peggiori di quelli che si fabbricano gli autolibrettisti di oggi. Inoltre non si scrive, o riscrive, la Bohème e Zazà; non si compone un’operetta – e quale operetta! – sul soggetto di Malbruk; non si porta alle ultime conseguenze la poetica del “verismo” (buona o cattiva che sia) come ha fatto Leoncavallo nei Pagliacci senza essere in qualche modo un intellettuale.
E’ evidente che se Leoncavallo si fosse dedicato al teatro di prosa avremmo avuto in lui un drammaturgo non troppo diverso da Paolo Giacometti[1], molto rispettabile sotto ogni verso. Ma in Leoncavallo era nascosto anche un melodista del tipo di Gastaldon[2] e un teatrante-improvvisatore che mirava ai grandi esempi dell’Ottocento. Nel 1916 assistemmo alla sua rapida creazione di un Mameli imbastito per conto del Comune di Genova, utilizzando brani dello Chatterton e di altre sue opere, e potemmo farci un’idea della sua estemporaneità. Il ricordo che di lui abbiamo conservato è quello di un uomo generoso e leale, moderno e non privo di estro. Purtroppo la nostra esperienza non giunge fino ad aver ascoltato la Zazà; ma sentendola alla radio abbiamo pensato che con qualche aggiunta “timbrica” di sale e pepe strumentale l’opera sarebbe più viva della Louise[3]. Se è eresia chiediamo che ci sia perdonata.
I Pagliacci sono un’opera da baraccone, non c’è dubbio; e sono un’opera di cattivo gusto. Resta però da dimostrare che un’opera di cattivo gusto, e da baraccone, non possa avere una sua vitalità anche artistica. Scriviamo anche perché nell’opera si avvertono oggi parti morte e parti vive: segno che il metro dell’estetica non disdice a questo dramma vituperato. Consideriamo morte le parti dove la romanza da salotto crea un clima incompatibile con quello del dramma lirico (l’aria di Nedda, la dichiarazione di Silvio: “Ma dunque perché m’hai stregato” e non poche altre frasi); mentre ben vivi appaiono il prologo, quasi tutta la parte di Canio e il colore complessivo dello “spettacolo nello spettacolo”. Dare a Nedda la possibilità di due voci diverse è stata un’intuizione geniale, che ieri Clara Petrella ha raccolto con rara intelligenza.
I Pagliacci hanno dunque meritato la loro sopravvivenza, se non proprio l’immortalità. Non aprono vie nuove, forse ne chiudono alcune, ma mostrano che l’autore della Reginetta delle rose era nato per la musica e per il teatro. Vi pare una cosa da nulla?”

Non so cosa rispondessero i lettori del Corriere, ma a me non pare affatto una cosa da nulla. Semmai può sembrare strano, oggi, che il poeta ligure spenda tante righe per sostenere che Leoncavallo era “tutt’altro che incolto”, che era “un intellettuale”.
La reazione di Montale si spiega, probabilmente, con la necessità di rintuzzare la diffusa reputazione di rozzezza che pesava sull’artista e sulla sua musica “da baraccone”.
Accuse di questo genere – generalmente rivolte, con vaghi distinguo, all’intero gruppo della cosiddetta “giovane scuola”, omologata sotto l’etichetta verista – erano partite dalla Francia nei primi anni del ‘900. Ne ricorderò qualche esempio[4] , cominciando da un precoce esemplare dell’autorazzismo italico, il pugliese Ricciotto Canudo.
Da poco stabilitosi a Parigi, le Barisien (copyright Apollinaire!) trovava che “l’imitazione più fastidiosa, priva di senso artistico e ripugnante” è, appunto, quella di Leoncavallo, i cui Pagliacci “non avrebbero mai dovuti essere sottoposti al giudizio degli artisti”; per non parlare della “brutalité anthiestétique” propria di Zazà! Gli fa eco Pierre Lalo, che ne lamenta “la volgarità disarmante”. Per Vincent d’Indy, “i veristi ignorano tutto della musica”, i loro prodotti sono “semplicemente ignominiosi”. Ma per Reynaldo Hahn (di origine venezuelana), i veristi la musica non sanno nemmeno cosa sia, e quanto a Leoncavallo, se qualcuno gli parlasse di qualche sua dimestichezza con Haydn, Mozart o Beethoven, il povero Reynaldo confessa che sarebbe sopraffatto dallo stupore!
Giudizi di questa natura, spesso motivati da ragioni tutt’altro che ideali, in Italia erano stati prontamente accolti e divulgati da giovani ‘innovatori’, finendo per diventare luoghi comuni.
Montale, evidentemente, ritenne prioritario sgombrare il campo da questo pregiudizio. E nel farlo andò forse anche un po’ oltre, attribuendo al buon Leoncavallo più meriti di quanti ne avesse, dando eccessivo credito alla vulgata che il musicista stesso era andato costruendo intorno a sé; come quando, sfruttando la documentata frequenza di un certo numero di lezioni carducciane all’Università di Bologna, si era fregiato di una laurea in lettere mai conseguita, e aveva addirittura tentato di accreditare un sodalizio e intimità col Carducci che, stante il ruvido carattere del poeta maremmano, appaiono difficilmente credibili[5] . Leoncavallo aveva di queste vanità. Basti pensare che si era addirittura ringiovanito (solo di poco!), divulgando, come anno di nascita, il 1858 invece del 1857 attestato nell’atto di nascita!
Montale tornerà a ribadire la cultura di Leoncavallo (con qualche attenuazione) in un articolo di tutt’altro argomento, sempre sul Corriere d’informazione (11-12 settembre 1964). Una fugace menzione, il cui significato di polemica contrapposizione è chiarito dal contesto. Ricordata una battuta circolata qualche anno prima sulla Biennale di Venezia, Montale si dice convinto che “riprendendo le note apposte a ogni pezzo del programma dell’attuale festival musicale” si potrebbe mettere insieme un libro capace di annichilire “la reputazione dei più famosi classici del ridere”. E prosegue: “Si tratta di note scritte dagli stessi compositori, giovani che posseggono più di una laurea, a differenza del compianto Ruggero Leoncavallo che di lauree ne aveva una sola (a quanto pare in giurisprudenza), il che bastava a creargli fama di compositore dottissimo seppure dotato di un estro musicale volgarissimo”.
Si faccia attenzione a non scambiare per concessione all’opinione corrente quell’accenno alla presunta volgarità dell’estro musicale di Leoncavallo, che il poeta si limita a riferire come componente limitativa della ‘fama’ creatasi attorno al musicista.
Così come bisogna guardarsi bene – per tornare alla recensione del ’56 – dal prendere troppo sul serio l’apparente apertura di credito a chi nei Pagliacci vedeva un’opera “da baraccone” e “di cattivo gusto”.
Che cosa debba intendersi per ‘cattivo gusto’ nelle parole di Montale spero di poterlo chiarire in un articolo successivo. Per ora mi limito a sottolineare l’equanimità del giudizio del poeta sui Pagliacci e sul loro autore. Egli riconosce nell’opera parti caduche: segnatamente quelle “dove la romanza da salotto crea un clima incompatibile con quello del dramma lirico”; quelle, cioè, dove la naturale vena melodica (il Leoncavallo-Gastaldon!) ha preso la mano al musicista, compromettendo la coerenza artistica del dramma. Ma la valutazione complessiva dell’opera e dell’autore è indubbiamente positiva. Un giudizio positivo che si estende (udite, udite!) addirittura alle famigerate Operetten! Anzi, proprio mentre rivendica alla musica del napoletano un valore non rivoluzionario ma, pur con indubbi limiti, certamente autentico, non si perita di definirlo, invece che col ricordo di qualcuno dei suoi drammi “seri” più o meno di successo, col richiamo a una delle sue creazioni meno impegnate, a quella briosa Reginetta delle rose che già nel titolo pareva fatta apposta per attirare i lazzi e gli sberleffi di giudici seriosi e supponenti. Una provocazione? Penso proprio di sì. Una sfida non troppo velata a quei signori che avevano avocato a sé l’esclusiva del buongusto, e reagivano con disdegno e disappunto tutte le volte che vedevano gli amanti della musica accorrere ai lavori ricchi di sentimento e disertare le gelide escogitazioni cerebrali.
La rosa, di Mucha
La Rosa di Mucha (1898) evoca bene l'atmosfera della "belle époque" in cui s'inquadra la Reginetta delle rose (1912)

A conclusione mi si lasci dire che – indipendentemente dalla condivisione di questo o quel particolare apprezzamento – del pezzo montaliano mi piace serbare nella memoria principalmente quella definizione che a Ruggero Leoncavallo calza a pennello: “un uomo generoso e leale, moderno e non privo di estro”. Della sua modernità, e del suo estro musicale, testimoniano i successi e – credo – gli stessi attacchi polemici di contemporanei e immediati successori. Delle sue qualità di uomo generoso e leale dànno prova, tra l’altro, la prontezza e la generosità con cui, in un periodo per lui non propriamente florido, in nome di valori ideali non esitò a rinunciare a una vantaggiosissima posizione di rendita acquisita, qual era quella che col suo lavoro aveva saputo conquistarsi nei ricchi teatri di lingua tedesca. E poco importa se oggi quei valori appaiono perenti e screditati. 


[1] Paolo Giacometti (1816-1882), drammaturgo, come dice M., “molto rispettabile sotto ogni verso”, impegnato nella costruzione di un teatro nazionale con finalità pedagogiche e morali. Basti ricordare, di lui, La morte civile, un dramma che già nel 1861 prospettava in termini appassionati la necessità dell’introduzione del divorzio. [NdR]
[2] Stanislao Gastaldon (1861-1939): tra gli iniziatori del verismo musicale (Mala Pasqua!, anch’essa ispirata alla novella di Verga, precedette di circa un mese il trionfo della Cavalleria rusticana di Mascagni), fu noto soprattutto per la ricca vena melodica trasfusa nelle sue romanze (si ascolti almeno Musica proibita, ma attenti alla scelta dell’interprete!). [NdR]
[3] “romanzo musicale” del compositore francese Gustave Charpentier (1860-1956) andato in scena lo stesso anno di Zazà (1900): la trama sentimentale, percorsa da venature di socialismo umanitario anarchicheggiante, perfettamente assecondata da una musica capace di fondere un wagnerismo stemperato in salsa francese con spunti di precoce impressionismo, freschezza melodica e sincerità di commozione, ne ha assicurato un duraturo quanto meritato successo. [NdR]
[4] Cito da Fiamma NICOLODI, Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia, Firenze, Sansoni, 1982.
[5] Si veda, in proposito, l’intervista rilasciata a Luigi Becherucci alla vigilia della prima del Mameli (La Tribuna, 26 aprile 1916).